Il capitalismo arcobaleno, noto anche come capitalismo rosa, si riferisce alla pratica di commercializzare prodotti rivolti specificamente alla comunità LGBT+ per trarre profitto dal Mese del Pride, senza però supportare realmente la causa. Giugno è il Mese del Pride, un periodo dedicato alla celebrazione della libertà di espressione del proprio orientamento sessuale, dopo anni di discriminazione e repressione. Tuttavia, il Pride è anche un momento per sensibilizzare su problematiche ancora attuali all’interno della comunità: nonostante i progressi fatti dai moti di Stonewall in poi, la comunità LGBT+ continua a subire discriminazioni e odio in molte parti del mondo. Per questo, giugno è anche un mese per dimostrare sostegno.
Negli ultimi anni, sono molte le aziende che hanno iniziato ad “abbracciare” il Mese del Pride, spesso cambiando il proprio logo per includere la bandiera arcobaleno, ma più subdolamente lanciando linee di prodotti a tema Pride. Il termine “capitalismo arcobaleno” mette così in evidenza il modo in cui certe aziende mascherano il loro intento di lucro su un gruppo specifico di persone sotto le spoglie dell’“attivismo”.
Un arcobaleno di profitti
È facile essere cinici. Secondo uno studio condotto nel 2018, le persone queer hanno un potere d’acquisto combinato di 3,6 trilioni di dollari a livello globale. Non è quindi difficile credere che i marchi vogliano semplicemente capitalizzare su questa fetta di mercato. Tuttavia, anche piccoli gesti di riconoscimento possono contribuire nella lotta contro l’omofobia.
Questo non significa che il capitalismo arcobaleno sia positivo Quando il pubblico chiede alle aziende di smettere di trarre profitto dalla comunità LGBT+, non sta chiedendo loro di fare marcia indietro, ma di impegnarsi per un cambiamento reale e donazioni concrete. Criticare il capitalismo arcobaleno è importante, perché le aziende devono capire che il pubblico non vuole una dimostrazione superficiale di sostegno, ma un vero impegno a difendere la comunità, non solo a giugno ma durante tutto l’anno.
Quando è iniziato il coinvolgimento delle aziende?
Sebbene alcune aziende abbiano sostenuto la comunità LGBT+ già negli anni ’90, il vero boom del Pride “aziendale” è arrivato tra il 2010 e il 2015, con l’esplosione dei social e con la crescita dell’attenzione ai temi DEI. In quegli anni, loghi arcobaleno e collezioni dedicate sono diventati una consuetudine, almeno in Occidente.
Da allora, molte aziende hanno sviluppato vere e proprie campagne strutturate. Nike ha lanciato la linea “Be True”, dedicata all’autenticità delle persone queer. NYX Cosmetics ha portato avanti il progetto “Proud Allies for All”, collaborando con il Los Angeles LGBT Center. Skittles, con “Find Your Community”, ha lavorato con GLAAD per promuovere inclusione e diversità. Chipotle ha associato la propria comunicazione Pride a una raccolta fondi per la stessa GLAAD.
Capitalismo arcobaleno e greenwashing: un problema simile
Oggi, il pubblico si aspetta di più da un marchio. Le persone sono più interessate a ciò che rappresenta un brand piuttosto che solo al suo aspetto estetico. Poiché il cambiamento climatico è una questione che preoccupa sempre più persone, la pratica del “greenwashing” è diventata sempre più comune tra aziende e marchi. Secondo la definizione dell’ONU: “Il greenwashing rappresenta un ostacolo significativo nella lotta al cambiamento climatico. Ingannando il pubblico e facendogli credere che un’azienda o un’altra entità stia facendo più di quanto realmente faccia per proteggere l’ambiente, il greenwashing promuove false soluzioni alla crisi climatica, distraendo e ritardando azioni concrete e credibili.”
Anche se il capitalismo arcobaleno non promuove attivamente false soluzioni a un problema serio, è comunque fuorviante per il pubblico far credere che acquistare prodotti a tema Pride equivalga a sostenere la comunità LGBT+. Molti brand dichiarano che una percentuale dei profitti sarà destinata a enti o iniziative pro-LGBT+, ma poi sponsorizzano politici anti-LGBT+ o sono accusati di discriminazioni omofobe. La catena americana Wall-Mart, ad esempio, vende una linea di prodotti Pride ma è stata accusata nel 2015 di discriminazione contro una persona omosessuale. Quindi, la domanda è: queste aziende stanno davvero sostenendo la comunità o stanno solo cercando di trarre profitto da essa?
Il caso Harley-Davidson: tra identità e ritiro
Purtroppo, la richiesta da parte dei consumatori di maggiore trasparenza sui valori che i brand sostengono può spesso portare a una frattura tra l’azienda e la sua clientela. In un momento di forte polarizzazione politica, il Mese del Pride e le iniziative DEI sono diventati bersaglio sempre più frequente di politici e opinionisti conservatori. Nel luglio 2024, l’attivista conservatore Robby Starbuck ha fatto pressione su Harley-Davidson affinché cancellasse le iniziative DEI interne, le sponsorizzazioni di eventi legati al Pride Month e le donazioni a enti di beneficenza.
Questa decisione ha suscitato un ampio dibattito, sollevando interrogativi sulla coerenza tra comunicazione esterna e valori interni. In un mondo in cui l’identità di marca è centrale, prendere posizione — o fare un passo indietro — comunica molto più di qualsiasi campagna pubblicitaria.
Con Donald Trump che ha intensificato la sua opposizione alle iniziative DEI (Diversità, Equità e Inclusione), molte aziende statunitensi hanno iniziato a ridurre le proprie donazioni per il Mese del Pride: grandi marchi come Mastercard, Nissan e Pepsi stanno diminuendo le loro sponsorizzazioni del Pride in città importanti come New York.
Coerenza, carta dei valori e scelte trasparenti
Oggi, non è più sufficiente “mettere una bandiera arcobaleno”. I consumatori chiedono autenticità, coerenza, continuità. Vogliono sapere se il brand applica internamente i valori che promuove esternamente. Per questo, la comunicazione Pride — e più in generale quella su diritti, inclusione e ambiente — non può essere scollegata da ciò che l’azienda è e fa nel quotidiano.
Una comunicazione efficace nasce da basi solide: una carta dei valori realmente applicata, politiche interne trasparenti, welfare inclusivo, certificazioni autorevoli come il Corporate Equality Index. Solo a partire da questi elementi si può comunicare in modo credibile. E, se necessario, anche scegliere di non comunicare in modo eclatante, ma continuare a lavorare sul piano culturale, interno e collettivo.
Perché sostenere una causa non è un atto performativo, ma una scelta di posizionamento. E oggi, come mostra il caso Harley-Davidson, quella scelta ha un peso.