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Come l’obesità è passata dall’essere lo zimbello a una vera e propria malattia

In Italia, il governo ha recentemente riconosciuto l’obesità come una malattia, attribuendole lo stesso peso medico e sociale di altre condizioni croniche di salute. Per molti, questa decisione potrebbe non sorprendere: l’obesità può portare a gravi problemi come malattie cardiache e debilitazione fisica. Eppure, storicamente, l’obesità è stata percepita non come un problema medico, ma come il risultato di pigrizia o scelte di vita sbagliate. Questa percezione ha spesso fatto delle persone affette da obesità un bersaglio di scherno e vergogna, piuttosto che oggetto di compassione o cura.

Rappresentazioni dell’obesità nei media

Per gran parte del XX secolo, e ancora oggi in certi casi, essere “magri” era sinonimo di essere “buoni”, mentre essere “grassi” veniva considerato “cattivo”. Questa visione binaria era profondamente radicata nei media popolari, in particolare nel cinema e nella televisione. Gli attori magri interpretavano solitamente gli eroi o gli interessi amorosi, mentre i personaggi in sovrappeso erano relegati a ruoli comici, con gag spesso costruite a loro spese.

Un esempio evidente è il film del 2001 Amore a prima svista (Shallow Hal), con Jack Black e Gwyneth Paltrow. Il film ruota attorno a un uomo superficiale che viene “maledetto” e inizia a vedere la bellezza interiore delle persone. Si innamora di una donna in sovrappeso, interpretata da Paltrow con una tuta che simula un corpo grasso, che lui percepisce come snella e convenzionalmente attraente. Il fondamento comico del film si basa su gag visive e stereotipi legati al peso, rafforzando l’idea che l’obesità sia una colpa personale, anziché una condizione complessa con molteplici cause, spesso fuori dal controllo individuale..

Quella comicità, oggi, viene guardata con occhi diversi. Il cambiamento culturale in atto ha spinto la comunicazione – soprattutto nei media visivi e nella pubblicità – a rivedere profondamente i propri codici.

Un cambiamento nell’opinione pubblica

Amore a prima svista è solo uno dei tanti esempi in cui le persone in sovrappeso sono state lo zimbello. Per decenni, la TV e il cinema hanno costantemente rappresentato i corpi più grandi come oggetti di derisione, anziché come personaggi completi e sviluppati. Ma nell’ultimo decennio, l’opinione pubblica ha iniziato a cambiare, anche grazie all’ascesa dei movimenti per la body positivity e l’inclusione. Questi movimenti sfidano gli standard di bellezza ristretti e promuovono una rappresentazione più equa ed empatica di tutti i tipi di corpo.

Nel 2016, ad esempio, la Mattel ha lanciato la linea Barbie Fashionistas, che includeva bambole con forme del corpo, tonalità della pelle e tratti del viso diversi. Questo ha rappresentato un’importante rottura con l’immagine tradizionale della Barbie ultra-magri e ha riconosciuto che la bellezza non è un concetto “taglia unica”.

È stata una svolta significativa nel linguaggio visivo del brand: una rottura con l’immagine della Barbie ultra-magri come standard di riferimento.

Anche il mondo della pubblicità ha avviato un’evoluzione. La campagna “Real Beauty” di Dove, attiva sin dal 2004 e tuttora aggiornata, ha mostrato donne reali, di ogni età, peso ed etnia, mettendo in discussione gli ideali irraggiungibili imposti da decenni di marketing. Più di recente, brand come Zalando, Asos e H&M hanno introdotto modelle curvy nei loro e-commerce, evitando il ritocco delle imperfezioni per normalizzare la diversità corporea.

Le radici dello stigma e il ruolo della comunicazione

Lo stigma legato ai corpi più grandi non è solo una questione estetica: affonda le sue radici anche nella classe sociale e nell’accesso alle risorse. Prima della Rivoluzione Industriale, la corpulenza era spesso associata a ricchezza e salute. Statue e opere d’arte antiche riflettono ideali di bellezza che valorizzavano forme più piene, in netto contrasto con gli standard odierni, spesso irraggiungibili, imposti dai social media.

Nel mondo moderno, la magrezza è sempre più diventata un lusso. L’accesso ad abbonamenti in palestra, cibo fresco e tempo per prendersi cura di sé è spesso riservato ai più privilegiati. Le persone della classe lavoratrice incontrano più ostacoli nel mantenere quello che la società considera un corpo “sano”. Dare la colpa alle persone obese accusandole di “pigrizia” ignora i numerosi fattori socioeconomici e ambientali che contribuiscono all’aumento di peso, come i deserti alimentari, lo stress e la mancanza di accesso alle cure sanitarie.

La narrazione pubblica, in passato ancorata a una logica di giudizio morale, sta finalmente evolvendo in una direzione più consapevole e articolata. In questo cambiamento, il ruolo di chi fa comunicazione è centrale.

Una svolta culturale e comunicativa

La decisione dell’Italia di classificare l’obesità come una malattia riconosce queste complessità e rappresenta un allontanamento dalla tendenza a incolpare l’individuo. Riconoscere l’obesità come una condizione medica significa garantire un miglior accesso a cure, supporto e una riduzione dello stigma, soprattutto per chi proviene da contesti svantaggiati.

Ma è anche un segnale linguistico, culturale e comunicativo: quando cambia il linguaggio delle istituzioni, cambia anche il modo in cui la società percepisce un fenomeno.

Se questo cambiamento politico sarà accompagnato da sforzi più ampi nei media e nel dibattito pubblico per rappresentare i diversi tipi di corpo con dignità e realismo, potrebbe portare a un cambiamento significativo, non solo nella sanità, ma anche nel modo in cui ci vediamo e ci trattiamo gli uni con gli altri.

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