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SPF 50 e distinzione sociale: la parabola culturale dell’abbronzatura

L’abbronzatura è sempre stata qualcosa di più di una reazione della pelle al sole. È un codice sociale, un tratto identitario, una narrazione collettiva che cambia a seconda delle epoche, dei modelli culturali e delle dinamiche di classe. Un tempo segno di povertà e fatica, poi simbolo di vacanza e benessere, oggi l’abbronzatura si sta lentamente trasformando in un indizio di trascuratezza. Ma non perché si sia tornati a idealizzare il pallore aristocratico, quanto perché la società contemporanea, attraverso il marketing e la medicina preventiva, ha ridefinito il concetto di cura, facendo coincidere la protezione solare con un nuovo tipo di lusso: quello invisibile, silenzioso, ma altamente performante.

Abbronzatura di status

Fino ai primi decenni del Novecento, la pelle scura era percepita come un marchio sociale. Il volto bruciato dal sole raccontava il lavoro nei campi, le ore passate sotto la luce diretta, la mancanza di riparo. Era il corpo dei braccianti, dei muratori, dei pescatori. Nessuno voleva apparire abbronzato, e le pubblicità dell’epoca – quelle poche che si rivolgevano all’estetica – promuovevano creme sbiancanti e ciprie chiare. La pelle bianca era sinonimo di protezione e di privilegio. Fu solo negli anni Venti, con l’ascesa di una nuova borghesia del tempo libero, che qualcosa cominciò a cambiare. La figura di Coco Chanel, fotografata con una pelle dorata al rientro da una crociera in Costa Azzurra, fece da detonatore simbolico. L’abbronzatura non era più il segno del lavoro, ma della libertà. Non raccontava la fatica, ma la possibilità di sottrarsi a essa. Fu l’inizio di un’estetica diversa, che negli anni successivi si sarebbe fatta strada nelle pubblicità, nella moda e nel desiderio collettivo.

Dal boom economico alla tanossessione

Già negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, la Coppertone lanciava una delle campagne più note della storia del marketing solare, con l’immagine della bambina il cui costume veniva tirato giù da un cagnolino, rivelando il contrasto tra la pelle abbronzata e quella ancora chiara. “Tan, don’t burn” era il claim. L’abbronzatura era diventata un obiettivo, ma con misura. Gli oli abbronzanti promettevano di dorare la pelle senza scottarla, ma la protezione era secondaria. Negli anni Sessanta e Settanta, con l’esplosione del turismo balneare e la diffusione delle ferie retribuite, l’abbronzatura divenne mainstream. Le pubblicità italiane mostravano famiglie sorridenti sotto l’ombrellone, ragazze distese su lettini con riviste e occhiali da sole, uomini in pantaloncini che si cospargevano di oli tropicali. Il colore era sinonimo di salute, di aria aperta, di seduzione.

Negli anni Ottanta e Novanta si raggiunse l’apice della tanossessione. L’abbronzatura intensa, quasi scura come il cuoio, divenne uno standard estetico. Le lampade UV entrarono nei centri estetici e nelle palestre, il concetto stesso di “pelle chiara” iniziò a essere percepito come sgradevole, addirittura triste. I prodotti solari si moltiplicarono: acceleratori, creme coloranti, autoabbronzanti. L’abbronzatura divenne permanente, indipendente dalla stagione. Le pubblicità spingevano sull’immaginario caraibico, sulle fragranze al cocco, sulla pelle lucida e bagnata. In quegli anni cominciarono ad emergere anche i primi casi di tanorexia, una vera e propria dipendenza psicologica dalla tintarella, che la sociologia e la medicina iniziarono a trattare come disturbo comportamentale.

Melanomi e protezione: il cambio di tendenza 

Il primo contraccolpo arrivò nei primi anni Duemila, in parallelo all’aumento dei dati sull’incidenza dei melanomi cutanei. In molti Paesi iniziarono le prime campagne pubbliche per la prevenzione. Tra le più note, quella australiana dello “Slip! Slop! Slap!”, che invitava a coprirsi, applicare la crema e indossare il cappello. In Italia, le campagne erano più timide, ma negli ambienti dermatologici si cominciava a parlare di danni da foto-invecchiamento. Intanto il mercato iniziava a muoversi: le prime linee “protezione alta” apparvero accanto agli oli tradizionali, ma il desiderio di abbronzarsi restava intatto. Solo negli ultimi cinque o sei anni si è assistito a un’inversione più decisa, anche grazie al lavoro di sensibilizzazione di dermatologi, farmacisti e divulgatori.

Oggi la crema solare non è più un accessorio da supermercato, ma un prodotto ad alta ingegneria cosmetica. I solari “di fascia alta” superano spesso i 50 euro, vantano formule antiossidanti, fotostabili, con protezione UVB, UVA, IR e contro la luce blu. Le texture sono invisibili, i profumi delicati, il packaging minimal e sofisticato. Brand come Darling, Hello Sunday, La Roche-Posay o Ultra Violette si posizionano nel segmento premium, con una comunicazione che ruota attorno alla self-care e alla salute della pelle. L’abbronzatura in sé, paradossalmente, è diventata meno importante: oggi conta di più non scottarsi mai, avere una pelle uniforme, senza macchie, senza rughe da sole. Lo dimostrano anche i dati raccolti da dermatologi e chirurghi estetici, come riportato in diverse interviste pubblicate su RevéeNews, secondo cui le richieste più frequenti riguardano la rimozione di lesioni solari, la correzione di discromie e il trattamento di danni cutanei legati all’eccessiva esposizione.

La ricchezza misurata in SPF

In questo contesto si inserisce anche il nuovo paradigma del lusso: proteggersi è un gesto consapevole, ma anche costoso. Chi si può permettere SPF elevati, filtri fisici di ultima generazione, maglie anti UV, cappelli UPF50+, occhiali schermati e skincare post esposizione, appartiene a un segmento informato e privilegiato. Chi invece continua ad affidarsi a prodotti economici, o peggio ancora non usa nulla, viene talvolta percepito come distante da una cultura del benessere. Un rovesciamento simbolico: oggi è abbronzato chi non può proteggersi.

E così, mentre il marketing più evoluto spinge sull’idea di pelle sana, luminosa e schermata, chi cerca ancora la tintarella estrema rischia di assomigliare – senza accorgersene – ai braccianti di un secolo fa. Anche questo è un paradosso contemporaneo: il ritorno della pelle scura come segno di fatica, solo che oggi la fatica non è nei campi, ma nella rincorsa a un modello estetico ormai superato.

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