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Omero era daltonico? Il colore, tra percezione e cultura

Quando, nel XIX secolo, i classicisti si trovarono a tradurre l’Iliade e l’Odissea di Omero, rimasero perplessi davanti agli insoliti riferimenti cromatici del poeta antico, in particolare alla sua descrizione del mare come “color del vino” (oinops pontos). Alcuni interpretarono questa scelta come indizio di un’ipotetica daltonia diffusa nell’antichità, ma altri studiosi si interessarono di più alla questione di quali colori le diverse lingue e culture scelgano effettivamente di nominare.

La gerarchia dei colori

Negli anni ’60 del Novecento, i linguisti iniziarono a sospettare che i vocabolari cromatici delle varie culture non si sviluppassero in modo casuale, ma secondo una sequenza prevedibile. In uno studio fondamentale del 1969, Brent Berlin e Paul Kay sottoposero a parlanti di lingue molto diverse centinaia di campioni di colore da nominare. I risultati furono sorprendenti: le lingue con solo due termini per definire i colori, distinguevano regolarmente tra “chiaro” e “scuro”; quelle con tre includevano anche il “rosso”; con quattro aggiungevano il “verde” o il “giallo”; con cinque anche l’altro; con sei si introduceva costantemente il “blu” dopo il giallo. Il modello si estendeva anche oltre i sei colori: gli altri termini tendevano a includere, in ordine, marrone, viola, rosa, arancione e grigio.

Questa osservazione non è solo teorica, ma si riflette nella realtà. I bambini russi, ad esempio, imparano a distinguere due blu fondamentali prima dei sei o sette anni, dimostrando come, anche all’interno di una lingua, i confini tra categorie possano evolversi con la cultura e lo sviluppo. Gli studiosi hanno inoltre reinterpretato il “mare color del vino” di Omero, osservando che questa metafora riflette un mondo in cui il “blu” non era ancora un concetto linguistico consolidato. I Greci di Omero, infatti, potrebbero aver descritto i colori in base alla luminosità e alla saturazione, piuttosto che alla tonalità.
Ulteriore conferma della gerarchia cromatica proviene da simulazioni informatiche: agenti artificiali, all’interno di “comunità” simulate, hanno sviluppato termini cromatici seguendo lo stesso ordine—prima il rosso, poi verde e giallo, infine il blu e le sfumature successive. Questo suggerisce che la sequenza riflette qualcosa di intrinseco alla percezione e alla comunicazione umana: le distinzioni più evidenti e rilevanti (come il rosso rispetto al chiaro/scuro) vengono nominate per prime, mentre le tonalità più sottili arrivano più tardi.

Omero e la percezione dei colori nell’antichità

Queste scoperte, nel loro insieme, mostrano che il “mare color del vino” di Omero non è il frutto di daltonismo, ma di una fase nello sviluppo del linguaggio cromatico, in cui la luminosità prevaleva sulla tonalità. La sua metafora descrive un mondo in cui il “blu” non esisteva ancora come concetto autonomo, e ci ricorda che il modo in cui parliamo dei colori è profondamente influenzato dalla struttura del nostro linguaggio e della nostra percezione.

Nel suo Opticks del 1704, Isaac Newton dimostrò che la luce bianca può essere scomposta in uno spettro di colori, quello che oggi riconosciamo come l’arcobaleno. Questa scoperta rovesciò la concezione aristotelica del colore, inteso come un continuo binario dal bianco al nero. Newton propose invece una nuova comprensione del colore: come proprietà astratta e misurabile.

Secondo Mark Bradley, professore associato di storia antica all’Università di Nottingham, le società antiche percepivano il colore in modo radicalmente diverso. Non lo consideravano una qualità astratta e autonoma, ma qualcosa di inseparabile dagli oggetti. Per esempio, un greco antico non avrebbe definito un tavolo “marrone” nel senso moderno, ma lo avrebbe descritto come “del colore del legno”. In questa prospettiva, il colore era radicato nella materia e nel contesto, una caratteristica esperienziale piuttosto che una categoria indipendente.

Comunicazione evolutiva

Ciò che la ricerca di Berlin e Kay ha dimostrato, soprattutto, è che il modo in cui comunichiamo i colori segue uno schema comune, nonostante le differenze geografiche, culturali e linguistiche. Questa scoperta evidenzia come la comunicazione sia una caratteristica umana fondamentale, che si è evoluta proprio come qualsiasi altro aspetto della nostra biologia.

La percezione del colore, come ogni aspetto della realtà, non è però un dato universale ma una costruzione culturale. Nelle culture orali, il linguaggio tende a essere concreto, legato all’esperienza sensoriale e all’utilità pratica: il colore è spesso descritto attraverso metafore o materiali («del colore del miele», «simile al vino»), anziché come categoria astratta. È solo con il passaggio alla scrittura—quella che Walter Ong definisce la “tecnologizzazione della parola”—che le comunità sviluppano un pensiero più distaccato e classificatorio, capace di isolare i concetti e nominarli con precisione crescente.

Il passaggio dall’oralità alla scrittura quindi non è solo tecnico, ma cognitivo e simbolico: la parola scritta spezza la continuità corporea e rituale del linguaggio orale, aprendo la strada a una rappresentazione astratta del mondo. Così, anche il colore si emancipa progressivamente dal contesto materiale per diventare un’entità autonoma, sistematizzabile, universalizzabile.

Il “mare color del vino” di Omero non è dunque un errore percettivo, ma lo specchio di una cultura ancora immersa nell’oralità, in cui la luce e la materia contano più della tonalità. Solo più tardi, con l’evolversi della scrittura e dei sistemi simbolici, nascerà il blu come idea indipendente. Parlare di colore, quindi, è parlare del nostro modo di pensare, rappresentare e ordinare il mondo: una pratica che cambia con le epoche, con le tecnologie del linguaggio e con i segni che le civiltà decidono di usare per dare forma all’esperienza.

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