Cinque quesiti, 30,6% di affluenza, nessun quorum. Il referendum dell’8 e 9 giugno 2025 si chiude con una sentenza chiara: l’indifferenza ha vinto. I cittadini italiani hanno scelto, in maggioranza, di non scegliere. Un silenzio assordante quello delle urne che racconta più di mille parole.
La geografia dell’astensione mostra un Nord più coinvolto rispetto al Sud, con Firenze che guida la classifica delle affluenze al 46%, a seguire Torino (39,3%), Milano (35,4%), Roma (34,0%) e Napoli (31,8%).
Un risultato che conferma un trend ormai consolidato di disaffezione verso i referendum abrogativi, che nel nostro Paese raramente riescono a coinvolgere più della metà degli aventi diritto.
E mentre si discute dei cinque quesiti – tutele crescenti, licenziamenti nelle PMI, contratti a termine, infortuni sul lavoro e cittadinanza – la vera domanda riguarda il ruolo della comunicazione.
Perché, in un’epoca in cui i messaggi viaggiano più velocemente e capillarmente che mai, gli italiani sembrano sempre meno motivati a partecipare a queste consultazioni?
La risposta passa anche dalla capacità – o dall’incapacità – della comunicazione politica e istituzionale di coinvolgere e informare efficacemente i cittadini su temi complessi e spesso poco raccontati.
Al referendum l’Italia si divide nella scelta di non scegliere
La comunicazione nei referendum presenta dinamiche e sfide sostanzialmente diverse rispetto alle campagne elettorali tradizionali. Le elezioni politiche coinvolgono un ampio spettro di tematiche, per i referendum la questione è diversa. La comunicazione, in questi casi, si scontra con sfide non banali. Dai temi complessi e tecnici a un dibattito spesso ridotto a slogan e contrapposizioni ideologiche. Senza dimenticare l’ interesse pubblico che si affievolisce in un clima di disillusione e sfiducia verso le istituzioni.
Il referendum è un momento di democrazia diretta che richiede, più che mai, una narrazione chiara, trasparente e coinvolgente. Il rischio è che, senza un’efficace capacità comunicativa, si crei un vuoto informativo che genera disinteresse e, di conseguenza, una rappresentanza debole delle istanze popolari.
Il dato del 30,6% non è solo un numero da commentare. È un campanello d’allarme. Serve ripensare il modo in cui la politica parla ai cittadini, affinché la partecipazione non rimanga un privilegio di pochi ma un diritto e un dovere condiviso. In assenza di questa sfida vinta, la democrazia rischia di perdere la sua voce più autentica.
Costruire una comunicazione più efficace attorno ai referendum
Innanzitutto, è necessario riconoscere che non basta “informare”. Occorre spiegare. Tradurre il linguaggio giuridico in parole accessibili, raccontare le conseguenze concrete di una scelta. La neutralità istituzionale non può diventare silenzio: le istituzioni hanno il dovere di rendere chiari i contenuti, senza orientare il voto, ma creando le condizioni per una scelta consapevole.
Spesso, però, la copertura dei referendum si concentra negli ultimi giorni, relegata ai margini del dibattito pubblico. L’approfondimento viene sacrificato in virtù della velocità, della polarizzazione e dell’infotainment. Così i referendum finiscono per apparire come appuntamenti tecnici e lontani, nonostante tocchino questioni sulla vita quotidiana dei cittadini.
La sfida è duplice: da un lato, costruire una comunicazione istituzionale autorevole, semplice ma non semplicistica, che sappia uscire dai palazzi per entrare nelle scuole, nelle piazze, nei feed social delle persone. Dall’altro, stimolare una cultura della partecipazione che non si limiti a chiedere il voto, ma che parta da prima, da un educazione civica diffusa, quotidiana, permanente.
La disintermediazione è davvero la soluzione?
Negli ultimi anni, la disintermediazione, ovvero il tentativo di partiti e leader di bypassare i media per comunicare direttamente con i cittadini, è spesso percepita come una possibile soluzione alla crisi di fiducia verso le istituzioni.
I social network, le piattaforme digitali e i nuovi strumenti di comunicazione sembrano aver restituito voce ai singoli, riducendo la distanza tra chi governa e chi è governato. La disintermediazione ha favorito velocità, accessibilità e la possibilità di creare nuove comunità attive e consapevoli. Tuttavia, l’assenza di mediazione non elimina il bisogno di competenze e responsabilità. Diventa ancora più urgente distinguere tra informazione e propaganda, tra confronto e polarizzazione. La sovrabbondanza di messaggi può generare confusione. L’algoritmo, intanto, tende a chiudere le persone in filter bubbles che rafforzano le convinzioni preesistenti invece di stimolare un dialogo aperto.
Oggi più che mai, sono proprio i cittadini a poter giocare un ruolo attivo e trasformativo nel rianimare il senso di partecipazione democratica. Il fenomeno, già in atto, seppur ancora frammentato vede gruppi informali, associazioni civiche, reti locali e attivisti digitali diventare punti di riferimento per una nuova forma di informazione: più vicina, più comprensibile e, soprattutto, più credibile. Dai caroselli su Instagram che spiegano in modo chiaro i quesiti referendari, ai video su TikTok che decostruiscono le fake news, fino ai forum online, ai podcast che analizzano i temi in profondità. Sono questi gli spazi paralleli, spesso autogestiti e autoprodotti, che si stanno imponendo come nuove forme di coinvolgimento civico.
Ricominciare dai cittadini per la ricostruzione della fiducia dal basso
La partecipazione dal basso, quindi, sembra rappresentare una risposta concreta al vuoto informativo lasciato dalla comunicazione ufficiale troppo spesso appiattita su logiche di polarizzazione, slogan e contrapposizioni. In assenza di un linguaggio istituzionale efficace, accessibile, trasparente, cresce la consapevolezza che la fiducia non sia più un capitale da ereditare, ma un processo da ricostruire attraverso relazioni di prossimità e ascolto reciproco. Il cittadino non è più solo il destinatario di messaggi. Diventa performer, interprete, creatore e divulgatore di contenuti politici, contribuendo alla costruzione di comunità informate e partecipative.
Perchè i referendum non siano solo un esercizio di forma, ma tornino a essere strumenti vivi della nostra democrazia, serve una comunicazione che non parli solo di cittadini, ma con i cittadini, riconosciuti come interlocutori attivi e non come spettatori occasionali.
Solo allora, forse, i numeri dell’astensione potranno smettere di raccontare l’apatia e tornare a esprimere una volontà collettiva. Altrimenti, continueremo a interrogarci non solo sui quesiti dei referendum, ma sul perché sempre più italiani scelgano di non rispondere.